A testimonianza di come questa forma di turismo sia particolarmente ricercata ed apprezzata, l’Associazione Momenti Divini, con la quale collaboro fin dalla nascita nel 2012, impegnata a promuovere l’enoturismo e la diffusione della cultura del vino e del cibo, ha organizzato, il 20 e 21 giugno scorso, un percorso enoturistico nella Tuscia, in particolare nella Valle dei Calanchi.
Personalmente sono molto legata a questo angolo di Lazio che mi riporta all’infanzia quando mi recavo dai nonni materni, originari di Caprarola, un piccolo borgo della nostra regione, dove si trova il Palazzo Farnese, uno dei capolavori dell’architettura laziale.
Mio nonno Agostino era un contadino, coltivava nocciole, ulivi, e la vite, solo che il suo vino a me non piaceva, aveva sempre un odore di zolfo e uno spunto di aceto. Sicuramente questo ha favorito la mia curiosità di scoprire sempre di più sul mondo del vino. Alle mie infinite domande, nonno dava sempre la stessa risposta ” lo faccio solo con l’uva”. Ma quando sgattaiolavo nella vigna a rubare i grappoli di moscato che “scrocchiavano” quando li mettevo in bocca accompagnandoli spesso anche con il pane, mi chiedevo come fosse possibile che quell’uva così dolce, matura e profumata desse un vino così cattivo. Analogamente a Russel Crowe che nel film “Un’ottima annata” ritorna alla terra d’infanzia per produrre vino, queste reminescenze mi hanno portato molti anni dopo, ad approfondire e a coltivare la passione e l’amore per il vino e ad amare ancora di più questo territorio, dalle grandi potenzialità e ricco di tradizioni, qualità, innovazione e sperimentazione.
Per questo primo tour ho scelto tre aziende vitivinicole che conosco e stimo personalmente, giovani realtà della Tuscia, dalle radici antiche e consapevoli che fare il vino è una cosa seria e perché un territorio si racconta anche attraverso i vini che produce.
Prima tappa nel pomeriggio di sabato a Tarquinia nella cantina Muscari Tomajoli. L’azienda che nasce nel 2007 da un’idea di Sergio Muscari, oggi è condotta dal giovane figlio Marco con la collaborazione dell’enologo Gabriele Gadenz. Tre le varietà di uve coltivate Montepulciano, Petit Verdot eVermentino per tre etichette monovarietali. Una filosofia aziendale basata sul rispetto della vite e del suo ciclo naturale, rese molto basse e produzioni limitate, complessivamente nove mila bottiglie dalle etichette disegnate e firmate dall’artista Guido Sileoni. Anche i nomi dei vini sprigionano storia e tradizioni del territorio: Nethum (da Nettuno) il vermentino in onore delle origini etrusche e del legame con il mare che si vede all’orizzonte dalle vigne, Velca a ricordo di Velia Spurinna meglio nota come fanciulla Velca e Pantaleone, il rosso il cui nome, che tra origine da una antica chiesa esistente in passato dove erano conservate le reliquie del Santo omonimo.
Con un leggero ritardo sulla tabella di marcia arriviamo a Castiglione in Teverina, alla Tenuta La Pazzaglia. Ad accoglierci le sorelle Verdecchia, che dal 2009 hanno letteralmente preso in mano l’azienda: Laura e Mariateresa coadiuvate dal fratello Pierfrancesco. I sorrisi rigorosamente celati dietro le mascherine, ma gli occhi pieni di gioia e di emozione nell’accogliere nuovamente i visitatori in azienda, hanno subito fugato tutti i timori. Dopo il giro in cantina e una panoramica sui vigneti ci siamo goduti finalmente la degustazione organizzata all’aperto. Una entrée con Miadimia e poi il vitigno principe di questa zona: il grechetto: G109 in magnum ed una mini verticale di Poggio Triale 2016 – 2017 e 2018 in anteprima.
Due cloni di grechetto diversi tra loro per morfologia e componenti aromatiche: G109 comunemente detto di Orvieto e G5 detto anche di Todi o grechetto gentile. Nel 1994, nel comune vicino di Civitella d’Agliano, Sergio Mottura è stato il pionere del processo di rivalutazione di questo vitigno autoctono, facendo da apripista a tutti gli altri viticoltori della zona. Il suo Latour a Civitella, un grechetto in purezza fermentato in barriques di rovere francese, è stato il primo vino bianco del Lazio ad ottenere, nel 2001, il riconoscimento dei Tre Bicchieri.
L’anteprima di Poggio Triale 2018, non ancora uscito in commercio, ha emozionato i presenti per l’eleganza e la freschezza; il G109, non basta mai, un vino dalla beva straordinaria, di quelli che anche se sei da solo apri la bottiglia e la finisci. La scelta di degustare solo i vini bianchi dell’azienda è stata voluta appositamente perché sono lo specchio, a mio modesto avviso, dei caratteri e delle personalità dei tre fratelli.
Miadimia, più timido, silenzioso ma con carattere e struttura come Pierfrancesco, che si dedica alla cura del vigneti e dell’uliveto, G109 un vino che esprime gioia, che non smette mai di parlare, di raccontarsi, come Laura, estroversa, sorridente e versatile che si occupa della parte amministrativa ma soprattutto del marketing e dei rapporti con i clienti, Poggio Triale, leggermente introverso, riservato ma appena si apre, esplode in bocca con l’entusiasmo, la verve e la passione contagiosa di Mariateresa che trascorre le sue giornate dividendosi tra la vigna e la cantina.
Un tramonto suggestivo sulla Valle dei Calanchi ha accompagnato il breve tragitto per raggiungere l’Agriturismo Il Casaletto dove abbiamo soggiornato per la notte. A stupirci questa volta le pizze di Andrea Pechini che si è superato come sempre, fino a che il palato e lo stomaco dei commensali hanno alzato bandiera bianca.
Se il buongiorno si vede dal mattino, un cielo limpido, un sole splendente, una ricca colazione, la bellezza mediterranea e sorridente di Donata Baccelliere uniti ai suoi modi garbati e gentili, hanno dato il via alla seconda giornata del tour diretti a conoscere l’azienda Doganieri Miyazaki a Vaiano.
Protagonisti della storia la passione di Maurizio Doganieri per la vigna e la promessa fatta al padre di avere un giorno un vigneto più grande e più bello di quello dell’infanzia, e l’amore a prima vista per Madoka, una giovane stagista giapponese, conosciuta quando lui lavorava in un’azienda vitivinicola in Toscana. Da questi amori e da quarantadue filari: vermentino, viognier, chardonnay, petit manseng, montepulciano, syrah, nascono annualmente dalle seimila alle settemila bottiglie divise in sette etichette a seconda dell’annata. Ci sediamo al tavolo ed assaggiamo tutta la produzione tranne il vermentino che è finito. I vini si raccontano da soli, la profondità del viognier Fixus, la speziatura di Poggio Eremo, l’eleganza e la potenza del Confiè, prodotto solo nelle grandi annate, la freschezza e la persistenza della vendemmia tardiva di petit manseng. Maurizio è emozionato ma felice e per circa due ore parla ininterrottamente della passione per quell’angolo di terra, che lui e Madoka lavorano esclusivamente a mano, dove anche le piogge e l’acqua scarseggiano. Ma entrambi fortunatamente non demordono e danno vita a nuovi progetti per il futuro.
Soddisfatti si rientra al Casaletto dove ci attendono i proprietari, Marco Ceccobelli e Donata, per il pranzo, un omaggio alle tradizioni e ai prodotti del territorio, tutto a chilometro zero e fatto in casa.
Il 2019 è stato un anno straordinario per Il Casaletto che ha fatto incetta di premi e riconoscimenti: la Chiocciola di Slow Food, la Buona Cucina per il Touring Club, Tre Gamberi della guida Gambero Rosso per la cucina, Tre Spicchi della guida Gambero Rosso per la pizza, e Miglior Cucina in agriturismo d’Italia per il Gambero Rosso e Agriturismo.it.
Poi è la volta di Stefano Ceccobelli, fratello di Marco, che segue l’allevamento dei maiali allo stato brado e la produzione dei salumi, e ne illustra le caratteristiche.
Il tour volge al termine ed il cielo della Tuscia ci saluta con un bell’acquazzone rinfrescante. Soddisfatti ma un po’ dispiaciuti di lasciare questi posti fantastici che ci hanno regalato due giorni intensi di scoperte ed emozioni, ci salutiamo con l’intento di tornare presto e con la richiesta di continuare il tour anche in altre zone.
Certamente Momenti Divini continuerà a proporre tour enogastronomici per creare empatia tra produttori ed appassionati, abbattere e sostituire le barriere tra venditore e compratore, con una situazione in cui un amico aiuta l’altro a farsi conoscere meglio, a dargli l’opportunità di raccontare la propria storia. Le persone si fidano delle persone e non degli slogan o delle offerte economiche.
Il vino così com’è non esiste in natura, è l’uomo a crearlo e per farlo deve lavorare a braccetto con la natura, con il tempo rispettando il territorio, e deve conoscere il momento esatto in cui dargli la vita. Solo se ha lavorato bene, prima in vigna e poi in cantina, il suo vino sarà in grado di rappresentare il territorio e di narrarci la propria storia, il lavoro del vignaiolo, la gestione del tempo e la sua evoluzione anno per anno.
Il compito di noi narratori è proprio questo: “creare unione tra le menti delle persone e comunicare un messaggio molto forte grazie al coinvolgimento emotivo e esperienziale”.
Di Catia Minghi